Avevo promesso solennemente a me stessa di evitare i toni lugubri che hanno accompagnato i miei ultimi post.
Tenterò di mantenere la promessa.
Ordunque il papà è stato dimesso, e su una mensola della cucina hanno fatto la loro comparsa, per iniziare, un potente antibiotico e trenta microiniezioni di eparina, la prima delle quali ha avuto la mia compartecipazione.
Bucherellare quella pelle fragile mi fa male al cuore, ma in definitiva siamo tutti fragili, no?
Il quattordici di ottobre ci sarà la sentenza definitiva, dopodichè si consulterà un oncologo.
So bene, anzi benissimo, che c’è gente che non arriva nemmeno alla metà dei suoi anni, ma i legami di sangue, specie se supportati da un affetto immenso, sono intoccabili.
Intanto io sto vivendo, e mentre la biologia differenzia le cellule tumorali, mia sorella, mio fratello ed io ci differenziamo nella gestione dell’accaduto.
C’è il razionale puro, la razional-relativista per acquisizione di comportamenti scelti negli anni come modelli, e la sentimental-emotiva, la piccola, che però ha buoni maestri.
La mamma è abituata, avendo perso entrambi i genitori per “la malattia che non perdona”.
Già, perchè una volta si diceva così. Oggi non perdona nemmeno la SLA, che sta uccidendo lentamente il mio vicino di casa, quarantadue anni e due figli.
Eppure è tutto perfettamente normale, anzi in regola: si nasce, si percorre un tratto di strada, più o meno lungo, si muore.
I credenti del tipo hard to die hanno le certezze in tasca, e assistono ad apparizioni ultraterrene. Gli spirituali in senso lato, magari tentati dalle filosofie religiose orientali, aspettano serenamente
che il ciclo si compia, e che la morte coincida con una rinascita.
Gli increduli/agnostici/atei non aspettano niente. Sanno che un dopo non esiste, e che bisogna bersi il tempo finchè ce n’è.
Io, per precisare, mi colloco fra il secondo ed il terzo gruppo, e ciò mi provoca scompensi e turbamenti di coscienza.
Ai quali sono avvezza, essendo uno spirito conflittuale che convive con altre parti immateriali critiche, contrastanti, antitetiche.
Adesso sono qui a scrivere live per voi, che non mi conoscete personalmente ma che mi avete testimoniato molto spesso la vostra comprensione, la simpatia e financo una forma di amicizia che, però, essendo virtuale, ha una gambina un po’ claudicante come la mia quando mi prende il dolore.
Ne ho fatta di strada da quando scrivevo prevalentemente elegie amorose per un giovane uomo che promise e non mantenne. E sono arrivata a struggermi, per quel perduto amore.
Oggi, più concretamente, mi preparo ad affrontare una piccola grande battaglia che avrà i suoi momenti di vittoria, illusori, e la sconfitta finale.
Non si sa quando, ma inevitabilmente arriverà, e la profezia non è generica come quella che ognuno di noi potrebbe applicare a se stesso: pulvis es et in pulverem reverteris.
Quando la campana suona ci si prepara: sulla testa ti hanno piazzato una spada, generalmente detta di Damocle, e non puoi fare altro che vivere al meglio quel che ti resta da vivere.
Ieri, per rimanere allegramente in tema, è morto un cugino acquisito di mio padre.
Una gran brava persona, un uomo buono come il pane. E’ morto per un glioma, per fame e per sete, avendo deciso, dopo la diagnosi, di non alimentarsi più.
I familiari hanno ammirevolmente rispettato le sue ultime volontà.
Che dire?
Non so, di preciso, come io vi sia sembrata, ma vi garantisco che sto abbastanza bene.
C’è un solo particolare che, a pensarci, mi provoca una stilettata al cuore, ma non è il caso di parlarne qui, adesso.
Vivere, in fondo, è volerci essere anche per chi rimane dentro di noi. Vivere è voler assaporare l’esistenza in ogni suo istante.
Vivere è avere in mente la Veglia di Ungaretti ogni volta che la morte si affaccia beffarda, a toglierci il calore del sole con la sua ombra sinistra.
Bene.
Spero che l’effetto del vino duri ancora un po’: fra dieci minuti potrei scoppiare a piangere.
Tenterò di mantenere la promessa.
Ordunque il papà è stato dimesso, e su una mensola della cucina hanno fatto la loro comparsa, per iniziare, un potente antibiotico e trenta microiniezioni di eparina, la prima delle quali ha avuto la mia compartecipazione.
Bucherellare quella pelle fragile mi fa male al cuore, ma in definitiva siamo tutti fragili, no?
Il quattordici di ottobre ci sarà la sentenza definitiva, dopodichè si consulterà un oncologo.
So bene, anzi benissimo, che c’è gente che non arriva nemmeno alla metà dei suoi anni, ma i legami di sangue, specie se supportati da un affetto immenso, sono intoccabili.
Intanto io sto vivendo, e mentre la biologia differenzia le cellule tumorali, mia sorella, mio fratello ed io ci differenziamo nella gestione dell’accaduto.
C’è il razionale puro, la razional-relativista per acquisizione di comportamenti scelti negli anni come modelli, e la sentimental-emotiva, la piccola, che però ha buoni maestri.
La mamma è abituata, avendo perso entrambi i genitori per “la malattia che non perdona”.
Già, perchè una volta si diceva così. Oggi non perdona nemmeno la SLA, che sta uccidendo lentamente il mio vicino di casa, quarantadue anni e due figli.
Eppure è tutto perfettamente normale, anzi in regola: si nasce, si percorre un tratto di strada, più o meno lungo, si muore.
I credenti del tipo hard to die hanno le certezze in tasca, e assistono ad apparizioni ultraterrene. Gli spirituali in senso lato, magari tentati dalle filosofie religiose orientali, aspettano serenamente
che il ciclo si compia, e che la morte coincida con una rinascita.
Gli increduli/agnostici/atei non aspettano niente. Sanno che un dopo non esiste, e che bisogna bersi il tempo finchè ce n’è.
Io, per precisare, mi colloco fra il secondo ed il terzo gruppo, e ciò mi provoca scompensi e turbamenti di coscienza.
Ai quali sono avvezza, essendo uno spirito conflittuale che convive con altre parti immateriali critiche, contrastanti, antitetiche.
Adesso sono qui a scrivere live per voi, che non mi conoscete personalmente ma che mi avete testimoniato molto spesso la vostra comprensione, la simpatia e financo una forma di amicizia che, però, essendo virtuale, ha una gambina un po’ claudicante come la mia quando mi prende il dolore.
Ne ho fatta di strada da quando scrivevo prevalentemente elegie amorose per un giovane uomo che promise e non mantenne. E sono arrivata a struggermi, per quel perduto amore.
Oggi, più concretamente, mi preparo ad affrontare una piccola grande battaglia che avrà i suoi momenti di vittoria, illusori, e la sconfitta finale.
Non si sa quando, ma inevitabilmente arriverà, e la profezia non è generica come quella che ognuno di noi potrebbe applicare a se stesso: pulvis es et in pulverem reverteris.
Quando la campana suona ci si prepara: sulla testa ti hanno piazzato una spada, generalmente detta di Damocle, e non puoi fare altro che vivere al meglio quel che ti resta da vivere.
Ieri, per rimanere allegramente in tema, è morto un cugino acquisito di mio padre.
Una gran brava persona, un uomo buono come il pane. E’ morto per un glioma, per fame e per sete, avendo deciso, dopo la diagnosi, di non alimentarsi più.
I familiari hanno ammirevolmente rispettato le sue ultime volontà.
Che dire?
Non so, di preciso, come io vi sia sembrata, ma vi garantisco che sto abbastanza bene.
C’è un solo particolare che, a pensarci, mi provoca una stilettata al cuore, ma non è il caso di parlarne qui, adesso.
Vivere, in fondo, è volerci essere anche per chi rimane dentro di noi. Vivere è voler assaporare l’esistenza in ogni suo istante.
Vivere è avere in mente la Veglia di Ungaretti ogni volta che la morte si affaccia beffarda, a toglierci il calore del sole con la sua ombra sinistra.
Bene.
Spero che l’effetto del vino duri ancora un po’: fra dieci minuti potrei scoppiare a piangere.