La luce di un’alba

La magia di una notte ininterrotta, di una veglia di amore mi fa compagnia anche adesso che sono di nuovo a casa, dopo aver accompagnato il mio giovane globetrotter a scuola per l’ennesimo miniviaggio. Alle 4 c’era un buio quasi assoluto, rischiarato da una luna ancora luminosa, ma bassa.
E’ sceso fra uno sciame di ragazzi.
– Mamma, perchè hanno portato valigie così grandi per due giorni soli?
Eh, sono donne.
Non l’ho baciato perchè lui non ama le effusioni pubbliche e poi, diamine, quale ragazzo si farebbe baciare dalla mamma davanti ai compagni di classe?
All’andata mi ha chiesto quale fosse il gruppo che avevo sul cd. Gli ho risposto che Eric Clapton è un signore di una certa età, ma che la buona musica non invecchia mai.
Tornata a casa ho guardato l’albero e le decorazioni, frutto di una serata intera di lavoro, in piedi su una gamba sola, come le gru.
Ogni anno annuncio che il tempo dell’albero è finito, poi mi dico che sono una bestia e vado su in mansarda, a trascinarmi dietro scatole e sacchetti.
Il Natale mi è morto dentro dopo la separazione. Morto davvero.
Non essendo mai stata una donna di fede, avevo legato a quella festa l’idea del calore familiare e della gioia semplice, quella che ti fa sentire felice quando lui mette le lucine al gelsomino e il piccolo guarda con gli occhioni sgranati.
Roba da mulino bianco, più o meno.
Il mio ex marito era l’addetto al presepe, che costruiva grande e pieno di tutti quei trucchetti che stregano i bimbi: il laghetto con le paperelle, la cascata, il fuoco acceso sotto un pentolone. Io, invece, allestivo l’albero, ricalcando fedelmente quella che era stata la tradizione della mia famiglia di origine.
L’ultimo presepe, quello del 2000/2001, fu il più bello di tutti. Riccardo aiutava suo padre con le manine piene di muschio e sassolini, mentre io piangevo in silenzio, di nascosto. L’udienza in tribunale era stata fissata per  il 29 gennaio: quel presepe, magnifico ed assurdo, mi sembrava la cura palliativa per un moribondo.
Lo scheletro di quella cura è rimasto intatto,  mai più toccato, su un soppalco, in garage: ogni volta che prendo l’auto posso godere di un cielo stellato  da favola.
The Christmas after comprai una grotta di piccole dimensioni, e un albero che Riccardo volle alto e maestoso: roba che per arrivare a decorare la cima devo tendermi sulle punte dei piedi  fino a sentirle dolere.
Quest’anno ho provato a proporre un alberello a fibre ottiche,  immediatamente cassato.
Perciò, dopo essermi sentita la madre di tutti i vermi, ho ridetto a me stessa che non ho il diritto di mortificare mio figlio con i miei malumori da vedova indiana scampata alla pira.
Capperi, ho anche amato, negli anni dopo, e forse il dolore sordo che non mi molla più nasce dall’aver creduto alle parole superficiali, seppur non in malafede, di chi aveva promesso che avrebbe risanato i miei danni di guerra, e costruito sulle mie macerie.
Ma le guerre, si sa, anche dopo gli armistizi lasciano molti morti sul campo, e ruderi fumanti, e mutilazioni. Non sempre chi tenta di ricostruire per gli sconfitti è all’altezza di un compito così duro. E cede.
Questa notte appena trascorsa mi ha vista completamente insonne, stanca e dolorante, pronta a svegliare l’unno con un buon latte e cioccolato caldo.
Adesso, proprio mentre scrivo, vedo la luce del mattino entrare discreta dalla vetrata del soggiorno.
In momenti così mi faccio rabbia per i miei orari scombinati: aspettare l’inizio di un nuovo giorno regala la sensazione impagabile di veder nascere la promessa di una speranza, e la speranza di una promessa.
Che sembra un gioco di parole, ma non lo è.