Notte amica amara, notte che fai paura. A volte anche tanta.
Ho appena spento il portatile: sono passate le due e, dopo aver vagato inutilmente di qua e di là, mi son detta che potesse bastare.
Mi sto rigirando nel letto da dieci minuti buoni: quando non riesci a dormire nonostante due milligrammi di xanax, e gli oggetti della tua stanza ti sembrano ostili, e il pensiero della tua vita nella sua scansione temporale che va dal passato remoto al futuro passando per questi hollow years ti fa venire fame d’aria, vuol dire che il tarlo malefico che hai dentro sta ricominciando a mangiarti l’anima.
A mangiarmi l’anima: quest’entità immateriale non meglio definita, che si colloca in un punto imprecisato del petto, al confine col cuore, che fa balzi degni di un acrobata.
Si chiama sindrome d’ansia. Banalmente.
E mentre scrivo sulla mia moleskine da casa, accoccolata sul fianco sinistro, guardo i cavi neri della macchina dei cemp sul pavimento chiaro, e rivedo i suoi piedi impacciati.
– Attento a non calpestarli.
Se i sogni muoiono all’alba, i miei non sono nemmeno nati.