A sguardi incrociati
estranei destini
pezzi di vita
che attraversano strade già segnate
contrappongo
una quieta osservazione
quieta ma attenta
e cenere sparsa
come polvere beffarda
sul mio cappottino
di carbone e gelato.
Seduta su una balaustra all’interno della Fortezza da Basso, anonima fra anonimi, scrivevo così, in una tiepida mattina di fine febbraio di quest’anno.
Marco mi aveva promesso che avrei trovato il sole e in effetti il treno si lasciò dietro, in Lazio, le ultime nuvole già sfrangiate e rarefatte.
Avevo la mia moleskine in mano, mentre l’amica era all’interno per un convegno. Me ne stetti lì abbastanza a lungo, apparentemente calma, con lo sguardo che vagava tutto intorno.
Poche persone, qualche marito accompagnatore e un paio di bambini, dopo lo sciamare scomposto verso i locali gremiti di voci e zainetti colorati.
Libertà, assenza di vincoli e un dolore sordo in mezzo al petto: quel cielo così azzurro, e quell’aria mite a febbraio erano un premio e una beffa.
Saltai giù dal parapetto e mi incamminai verso l’uscita, respirando quell’aria gentile che non sarebbe mai stata mia, se non, ancora, in teneri sogni rimoventi.
Fine miserevole ed ingloriosa di una poesia divina.
Marco mi aveva promesso che avrei trovato il sole e in effetti il treno si lasciò dietro, in Lazio, le ultime nuvole già sfrangiate e rarefatte.
Avevo la mia moleskine in mano, mentre l’amica era all’interno per un convegno. Me ne stetti lì abbastanza a lungo, apparentemente calma, con lo sguardo che vagava tutto intorno.
Poche persone, qualche marito accompagnatore e un paio di bambini, dopo lo sciamare scomposto verso i locali gremiti di voci e zainetti colorati.
Libertà, assenza di vincoli e un dolore sordo in mezzo al petto: quel cielo così azzurro, e quell’aria mite a febbraio erano un premio e una beffa.
Saltai giù dal parapetto e mi incamminai verso l’uscita, respirando quell’aria gentile che non sarebbe mai stata mia, se non, ancora, in teneri sogni rimoventi.
Fine miserevole ed ingloriosa di una poesia divina.