Pause

La macchina ha versato nel bicchiere di plastica tre colori distinti. Tre colori che tendono ad avvicinarsi l’uno all’altro, ma che finiscono per starsene immobili, in attesa di un gesto o di un ordine superiore.
Mescolo brevemente i tre colori con la stecchetta di plastica, seduta sulla poltroncina di fronte alle stanze riservate al personale medico.
Sono in pace, accoccolata in una cuccia confortevole, distante dalle persone che aspettano il loro turno per un’ecografia o una visita specialistica.
Aspetto che mia madre finisca la sua seduta di fisioterapia, e intanto mi vizio con gli oggetti che amo di più: la mia moleskine, il libro in corso di lettura, la bevanda tricolore calda.
Avvolta nella mia sciarpona viola e nei vapori di profumo invernale che emano, mi rendo conto di sentirmi stranamente al mio posto in ospedali e strutture sanitarie in generale.
Sono stata anche con mio padre durante il brutto periodo della diagnosi e del buio, eppure, a parte il profondo dispiacere, ero serena e a mio agio.
Penserete che io non sia normale e pensandolo, probabilmente, avreste ragione, ma ho conosciuto una ragazza che preparava gli esami al cimitero. Cioè a dire che alle stravaganti propensioni della gente non c’è limite.
Fossi rimasta a casa probabilmente avrei stirato. Stirerò di sicuro più tardi: e chi si perdeva queste due ore di pausa, di “buonasera” sussurrati, di passi senza rumore e di profumo di caffè mischiato al mio, che dalla sciarpa risale verso le narici?
Non ho sensi di colpa: mio figlio è in palestra e ci ritroveremo a casa, stasera, per cena.
Ed io sono io, in questi rari momenti in cui assorbo e spando la mia essenza, libera da pensieri molesti, da forzature e da recite non volute.
Quello che dovremmo desiderare, tutti, è di essere quello che vogliamo, seguendo il percorso dei nostri pensieri più autentici, e del quieto attendere lo svolgersi ritmico dei giorni.
Se non ci fosse il passaggio continuo del tecnico radiologo, quello con le spalle spioventi e lo sguardo da duro, potrei affermare di aver saputo ritagliare, nel canovaccio convulso delle mie giornate, centoventi minuti di perfetta serenità.
O di caos calmo?