Mi sono accostata al film (che non avevo visto all’uscita nei cinema) con un bagaglio sostanzioso di pregiudizi, nonostante l’apprezzamento che nutro verso il regista Paolo Sorrentino.
In fondo ci sarebbe poco da scrivere, se non la sentenza un po’ manichea “mi è piaciuto, non mi è piaciuto per niente”.
Di solito quello che tocca l’anima mi dà i brividi, e questo film me ne ha procurati diversi.
La grande bellezza, inseguita invano dal protagonista, viene sfiorata a tratti in forma di piccoli assaggi di uno stato di grazia che, per sua stessa scelta e sofferta ammissione, non gli apparterrà mai.
Jep, ragazzo di belle speranze, approda a Roma negli anni facili dell’altro boom, scrive un romanzo apprezzato, lo butta nel fardello delle cose buone della sua vita e si immerge anima e corpo in una vita futile e dissoluta a cui fa da splendida cornice una Roma decadente, volgare, falsa di una falsità assurda, disperato sipario di donne e uomini, malati e senza valori, che si aggrappano al simulacro di ciò che credevano di essere, e che non sono stati mai.
I piccoli, commoventi stralci di umanità vera sono destinati ad una scomparsa prematura alla quale il giornalista finto cinico non rimane indifferente, nonostante l’abilità a mascherare l’anima, acquisita in anni ed anni di recite consapevoli.
Così si rimane scientemente fermi lì, in quel teatro grottesco di maschere umane, ammettendo fra le righe di non essere più in tempo per un’inversione di rotta che rimarrà nella memoria e nello sguardo di una giovane ragazza innamorata, in una lontanissima sera d’estate.
Poi il tempo rotola, inesorabile, e travolge il buono che era in noi: la vera, grande bellezza.
Non rimane che continuare a recitare un copione che spesso si avverte insopportabilmente falso, ma che, nello stesso tempo, è diventato, oramai, l’unica certezza in un mondo (e una città) sul ciglio del baratro.
Ipotizzo che l’America abbia sottolineato l’aspetto più visibile e macroscopico del film: quello di un Paese bacato fino al torsolo: brutto e corrotto.
L’anima, invece, è negli occhi disperati del ragazzo suicida, in quelli della spogliarellista malata e dello scrittore di testi che deciderà di tornare al paesello prima di essere travolto da un mondo che della sua genuinità non ha niente.
Jep rimane lì, a sorridere amaro, perfettamente conscio che solo la morte sarà la sua redenzione.
la grande tristezza
3 pensieri riguardo “la grande tristezza”
I commenti sono chiusi.
Ho tanto invidiato chi ha curato la fotografia: deve essere stata un’esperienza fantastica poter lavorare con location come quelle.
Per il resto l’ho trovato tedioso e mi ha dato un senso di “già visto”. Comprendo però che a molti possa essere piaciuto.
Così come io comprendo che possa non essere piaciuto.
Il tedio di cui parli, a mio modesto avviso, è stato rappresentato volutamente per sottolineare (e stigmatizzare) un mondo verso il quale il regista non ha occhi benevoli nemmeno per un attimo.
A me è piaciuto, anche se non maniera straordinaria. Ho fatto fatica a rintracciare le atmosfere felliniane, tranne che per un vago accenno ai ricordi di Jep, secondo me di Fellini non ha nulla, questo non toglie niente, però, alla sua valenza. Bellissima la fotografia, sì, ne convengo. Da sogno.
Gli americani sono legati a degli stereotipi circa l’Italia, e questo film li ha confermati. Anche se sono del parere che l’assegnazione degli oscar, spesso poco ha a che fare con la valenza delle pellicole… c’est l’argent qui fait la guerre!