Se volessimo paragonare l’esistenza umana (in generale) ad una lunga linea retta, dovremmo inevitabilmente fare i conti con tutte le deviazioni di percorso e le variabili che intersecano le nostre speranze di avere una vita lineare, perchè una vita realmente lineare non c’è e, forse, non è mai esistita.
Le fratture, le elisioni, le cesure sono lo scotto che paghiamo per il fatto di aver avuto in dono la possibilità di vivere: nemmeno lo avessimo chiesto, questo dono.
Non è irriconoscenza, ma realismo.
Gli abbracci spezzati sono quelli che ci strappano a chi amiamo, con crudeltà inaudita.
Sono la morte, a volte, che ci coglie impreparati, o un abbandono che parrebbe materiale per sceneggiature di serie C, se non fosse tragicamente ineluttabile e doloroso.
Di Almodovar, stavolta in un film dalla trama “debole”, mi colpisce ancora una volta un particolare: quello degli adolescenti maschi, che spesso sono gay, oppure straordinariamente svegli, profondi e, in qualche modo, eccezionali. Infinitamente al di sopra della media di un ragazzo tipo appartenente a quella fascia di età.
Un triangolo amoroso è il più banale degli accadimenti umani, ma rivendica il suo valore e se ne appropria grazie ad alcuni particolari (nemmeno poi tanto particolari) che ci lasciano con la bocca amara, e con il sospetto che la felicità, ammesso che esista, la si debba sempre pagare.
E così, nella finzione cinematografica come nella realtà, anche la storia più comune può guadagnare una medaglia al merito: basta saperla raccontare. O, nel nostro piccolo di ordinary people, riuscire a viverla senza aspettative.