Mi capita spesso di riandare indietro nel tempo, alla ricerca di quei momenti, anche lunghi, che mi avevano fatto credere che la vita fosse sempre entusiasmante e meritevole di essere vissuta.
Abbagli, forse.
Ingenuità datata, contaminata appena dalle sberle che la vita suddetta distribuisce equamente, con esemplare generosità.
Potrà sembrare anche paradossale, ma cullarsi nell’atmosfera di certi periodi passati è rinfrancante: almeno fino a quando non diventa una sterile abitudine fine a se stessa.
Mio figlio, venticinque anni, ha deciso di continuare a studiare all’estero e di rimanerci per cercare e trovare lavoro.
Non è che per me sia stata una sorpresa; ho sempre intuito che avesse estremamente a cuore la sua indipendenza e, ad onor del vero, mi sono sempre adoperata affinchè non si sentisse mai prigioniero dell’ambiente protettivo in cui è cresciuto.
Rimanere saldamente ancorati alle proprie, deboli certezze è come fermarsi su un binario morto senza essersene accorti veramente.
Così oggi pago lo scotto di vederlo poco, ma di saperlo sereno e in pace con se stesso anche se ad oltre duemila chilometri di distanza da me.
Ho voluto questo per la sua indipendenza psicologica, emotiva, forse anche affettiva, seppur in un certo modo.
Gli errori personali sono ottimi maestri.
Se avessi provato a tarpargli le ali mi sarei sentita esattamente come quando, nel periodo pleistocenico, fu deciso che avrei studiato in collegio.
A undici, dodici anni di allora non avevi la consapevolezza di ciò che ti sarebbe potuto toccare in sorte.
Di quegli anni bui ricordo soprattutto i cortili interni con giganteschi alberi di magnolie, e il nostro ingenuo giocare a “campana” durante i pomeriggi tardo primaverili, pregustando la gioia delle vacanze imminenti.
Tempi lontani, cioè acqua passata da tanto.
Le esperienze insegnano: io ho imparato a imparare.
Questo post fa parte di un gioco di scrittura tra blogger. Potete trovare parole e partecipanti su “Verba Ludica”, al link http://carbonaridellaparola.blogspot.it
C’era un vecchio disco di F. Guccini, Stanze di vita quotidiana si chiamava, leggo e penso a quello. Al procedere impassibile e inarrestabile delle nostre vite su questo pezzo di terra. Tu hai usato le cinque parole in modo piano, apparentemente discorsivo ma io sento che è un’analisi adulta anche verso te stessa. Sui figli, il loro mondo e la loro vita, sui loro cammini inevitabilmente diversi dai nostri e sulla malinconia che tale distacco produce su chi li ha messi al mondo non posso che chinare consapevolmente il capo, hai imparato bene. Lo hai scritto bene.
Ps: Non riesco mai a commentare su wp partendo da blogger.
Enzo ha scritto i pensieri – lodi comprese – che, leggendoti, si andavano formando nella mia mente. Alle sue parole aggiungo che questo elaborato è una piccola perla di quel che si riesce ad elaborare – senza ricorrere a chissà quali capolavori – avendo un substrato di partenza..
Le mie figlie, invece, sono rientrate, e mi spiace per loro. Perché tra il peso della lontananza e saperle in una nazione dove futuro fa rima con fatica disumana, preferisco la prima.
Sei stata in collegio? Era il mio sogno, da ragazzina. :)
Comunque hai toccato un tema interessante, quello del dispiacere da nido vuoto. Se ne parla troppo poco.
Se ne parla troppo poco ??? :oops:
Noooono, se ne parla abbastaza ( a suo tempo, Guccini ci fece una splendida canzone ), ma, da parte delle mamme chiocce ( quelle che, anche quando i figli hanno trent’ anni continuano a chiamarli “i miei cuccioli” ), si continua a covare i figli in casa … cercando disperatamente con ogni mezzo di tenerseli sotto le gonne ! :-(
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Cosa estremamente sbagliata e deleteria